Il
pane nella storia. Dalle origini ai giorni nostri. Non c'è paese del mondo, ricco o povero, sulle
cui mense non si trovi una qualche forma di pane, o focaccia, o
“schiacciata”, lievitata o no, fatta con la farina di frumento o altro
cereale affine, macinato e impastato con acqua e cotto al fuoco. Alimento
apparentemente semplice, fatto di pochi elementi basilari, che oggi in
tante parti del mondo più ricco è considerato forse dalle giovani
generazioni con scarso interesse, non indispensabile, perché c'è tanto
altro da mangiare. Ma per millenni, e fino a pochi decenni fa, il pane è
stato l'alimento base, fondamentale e indispensabile per la sopravvivenza
dei popoli. E'
una storia che comincia da un tempo lontanissimo; i libri di storia la
fanno risalire al Neolitico ( o età della pietra nuova,
levigata) e all'Età del Bronzo, e si parla quindi di qualche
migliaio di anni prima di Cristo (dal IX al VII mill. a. C.). Reperti di semi di cereali fossili e di utensili usati per
impastare e cuocere il pane, scritti , incisioni e bassorilievi
soprattutto in decorazioni di tombe, che riferivano della presenza di
frumento e di pane, sono stati trovati via via nel tempo nelle aree
archeologiche dove si svilupparono le antiche civiltà della Mesopotamia,
dell'Egitto, del Nord e del Centro Europa, in Grecia e in Italia . Parlando
di pane, si potrebbe ripassare la storia dell'uomo dalle origini ai giorni
nostri, la geografia dei continenti, l'agricoltura e l'economia , non solo
agraria, delle nazioni, e persino le religioni, cominciando con le tante
citazioni del pane nella Bibbia, continuando con l'uso anche religioso e
rituale che ne facevano prima i greci poi gli ebrei (con pani azzimi, non
lievitati, a Pasqua) e per finire con la preghiera più importante per i
cristiani, che invoca “dacci oggi il nostro pane quotidiano”.
Senza dimenticare che uno dei miracoli di Gesù più apprezzati fu
la moltiplicazione dei pani e dei pesci, e il sacramento dell'eucarestia
si basa sulla condivisione di pane e vino a memoria dell'ultima cena di
Gesù 2000 anni fa. Il
pane è stato anche un importante strumento politico usato dai governanti
per mantenere il consenso dei sudditi o dei popoli governati. Gli
imperatori romani avevano capito che per evitare rivolte della plebe
e mantenere l'ordine, bisognava assicurare l'approvvigionamento di grano ,
soprattutto per gli abitanti concentrati nelle grandi città. Si
provvedeva a tenerne scorte in magazzini pubblici, e, quando queste si
esaurivano per effetto di scarsi raccolti e conseguenti carestie, si
mandavano emissari ad acquistarne in paesi anche molto lontani, a volte a
spese degli stessi imperatori, purché non venisse mai a mancare. Assicurare
al popolo “panem et circenses”, pane e giochi nei circhi, era
buona norma per restare al potere . Associata
alla storia del pane c'è la storia dei mulini ,
costruiti in modi diversi o simili in ogni parte del mondo, azionati con
la forza delle braccia degli uomini, o degli animali, con la spinta del
vento o dell'acqua, prima della invenzione dei motori, a vapore ed
elettrici. E c'è pure la storia dei forni, da quelli
rudimentali preistorici presso le capanne nei villaggi, ai primi forni
pubblici di città allestiti dai Romani intorno al 168 a. C., per arrivare
ai forni rurali, presenti e fumanti in ogni corte contadina, insieme alla
casa, al pozzo, alla stalla e al fienile, dal lontano medioevo e fino a
qualche decennio fa.
E' dell'ultima metà del 1900 il
passaggio definitivo, nei forni con bottega pubblica, dalla cottura
con fuoco alimentato a legna al forno elettrico, e alla produzione di pane
artigianale e industriale in grandi quantità e adatti anche alla lunga
conservazione. Partendo
dalle primordiali poltiglie di semi di cereali (dapprima orzo, miglio e
segale, poi frumento) schiacciati con pietra su pietra , impastati con
l'acqua e cotti accanto al fuoco, l'uomo ha imparato piano piano a
migliorare il suo prodotto; e pare siano stati gli Egiziani a scoprire gli
effetti “magici” di una muffa prodotta da cibo andato a male, che
trasformava il glutine e faceva lievitare il pane lasciandolo riposare per
qualche tempo, e cuocendolo poi in piccoli forni a forma di cupola che
raggiungevano e conservavano un' alta temperatura. I
Greci impararono e perfezionarono la tecnica di impasto e cottura,
aggiunsero spezie ed aromi con notevole creatività, tanto che si dice
producessero ben 72 tipi di pane diversi. I
Romani appresero dai Greci e migliorarono la tecnica di macinazione,
producendo farine bianche e più raffinate e allestendo forni pubblici in
cui si fabbricava e vendeva pane per gli abitanti di Roma e delle città,
dove non era possibile avere forni domestici o personali (presenti invece
nelle ville di campagna). Anche a Roma il pane non era uguale per tutti ;
lo storico Plinio il vecchio citava il pane “streptipcius”
(una specie di antesignano della pizza fatto con farina, acqua, olio,
strutto e pepe), il pane “adipatus” (pane condito o
“ingrassato”, con lardo e pancetta), “l'artologalum”(una
specie di “gnocco”, diremmo noi, che faceva da antipasto), e il “panis
testicius” ( un'antesignano della piadina, o della “galletta”,
preparato e consumato dai soldati in marcia e negli accampamenti). Ma
persistevano anche i pani poveri, gallette di farina d'orzo e farinate
di farro e fave. Ai
Romani si deve anche il passaggio alla macinazione con i primi mulini
azionati dalla forza dell'acqua, i “pistores” o “pistrini”. Se
dalla documentazione di fonte storico-archeologica si passa alla
documentazione di fonte archivistica, si apprende che dal 1200 in poi ,
Statuti e regolamenti delle città e degli Stati prevedevano sempre norme
riguardanti l' approvvigionamento del grano, la macinazione , i relativi
dazi e tasse, la gestione delle acque dei canali utilizzati dai mulini, la
vendita del pane con calmieri o prezzi fissati dai Governi secondo il peso
e la qualità. L'Archivio di Stato di Bologna ne conserva abbondanti e
interessanti testimonianze documentali.
Alla documentazione scritta si aggiunse
poi anche la documentazione artistica, che ha tramandato
in affreschi, quadri e bassorilievi scene agresti sulle varie fasi della
lavorazione del frumento, sui forni, sui mulini, e con immagini di vita
domestica in cui non mancava il pane sul tavolo della cucina. Volendo
restare nell'area a noi vicina, citiamo solo gli affreschi presenti in una
sala del Castello di Bentivoglio, dipinti nella seconda metà del 1400 per
conto della famiglia dei “Signori” di Bologna, che mostrano le varie
fasi del ciclo del pane, dalla semina del frumento al consumo del
pane nella sala da pranzo. A Bologna, nella Chiesa di S. Giacomo , si può
ammirare un affresco del 1300, di Cristoforo da Bologna, che mostra un
venditore di pane in ambientazione antica ebraica. Arrivando al tempo più
recente, una bella testimonianza storico-artistica della metà del 1900,
viene da un pittore autodidatta , o naif, don Antonio Malaguti di
S. Giovanni in Persiceto, che ha dipinto in piccoli quadri tutti i momenti
della lavorazione del frumento, dalla semina al raccolto, alla molitura,
alla fabbricazione nella casa contadina, alla cottura nel forno rurale,
alle liete riunioni di famiglia intorno alla “crescente”
appena sfornata e al pane in tavola. Dipinti e testi esplicativi
sono stati ripresi e pubblicati in un libro uscito negli anni
scorsi. Con
l'invenzione della stampa, dal 1600 in poi si sono diffusi i testi di
economia agraria , che parlavano della coltivazione del frumento e
dell'importanza che rivestiva nel contesto economico-sociale da sempre;
tanto che fu definita quella agricola, per secoli, “l'economia del
pane e del vino”, perchè l'agricoltura e l'alimentazione della
famiglia contadina e bracciantile ( che costituivano la stragrande
maggioranza della popolazione) era basata soprattutto sulla coltivazione
di frumento e vite e sul quasi esclusivo consumo dei rispettivi prodotti.
Il bolognese marchese Vincenzo Tanara,
possidente e scrittore. nel suo libro ”L'economia del cittadino in
villa”, pubblicato nel 1644, spiegava, tra le altre cose, come si
facevano il pane, la polenta, i biscotti, la pinza e la pagnotta ripiena.
Tanti altri , cuochi o divulgatori di cronache o di sole ricette, ne
parlarono e citarono modi diversi di fare il pane, dal Medioevo al
Rinascimento, per le tavole dei poveri e per quelle dei ricchi: Per i
primi : pane “nero”, o molto scuro perché
impastato talvolta con polvere, crusche e farine di segale o
miglio o altri semi da foraggio, che riempivano la pancia ma nutrivano
poco; per i secondi : pane arricchito con oli, grassi, spezie, aromi ,
formaggi e altre gustose
pietanze. Si
racconta che siano stati i cuochi alla corte dei Medici di Firenze a
utilizzare il lievito di birra per migliorare la
lievitazione del pane, e che questa pratica sia poi stata esportata in
Francia da Maria de' Medici (1573-1642), andata sposa al re Enrico IV. Da
allora ad oggi , cuochi, fornai e massaie hanno fatto del loro meglio
per rendere sempre più gradevole e profumato il pane quotidiano. Ogni
regione e località si è poi specializzata nella produzione di un proprio
pane "tipico", con caratteristiche di
forma, ingredienti e modalità di confezionamento diversi,
per esigenze, gusti e consuetudini che si sono consolidati nel tempo
nei vari luoghi . Si legge che l'Istituto di Sociologia Rurale ha
recentemente censito 200 tipologie di pane diverse, con ben 1500
varianti. Nonostante
tutte le tentazioni attuali per cibi diversi, e certe diete
che vorrebbero ridurre il consumo di pane, pare che comunque in media
ognuno di noi in Italia ne consumi circa 200 grammi al giorno. Contando
sulla benevolenza dei dietologi più saggi, che consigliano la "dieta
mediterranea", continuiamo dunque tranquillamente a consumare crocette,
coppie, barilini, rosette, ciabatte, michette, filoni o quant'altro
si preferisce; e nei momenti di meditazione possiamo ripescare dalla
memoria qualcuno degli antichi proverbi contadini , come "Col pan
sót à s'fa i bî pot" (col pane asciutto si fanno i bei
bambini, detto anche per consolarsi se non c'era companatico).
O ricordare quel versetto di Dante che riferiva di "come sa
di sale lo pane altrui", pensando all'amarezza e
all'umiliazione di chi il pane quotidiano se lo doveva (o se lo deve
tuttora) conquistare lavorando in condizione di sfruttamento illecito o
mendicando. Modi
di dire e proverbi in dialetto bolognese che si riferiscono al pane e al
cibo delle campagna e rendono bene l'idea su usi, costumi e pensieri del
mondo contadino vivo fino all'altro ieri, si possono trovare nel
volumetto di Claudia Giacometti "Antologia dialettale : il pane,
la casa e la famiglia contadina", pubblicato a cura del
Museo della civiltà contadina di S. Marino di Bentivoglio. Pane,
carestie, tasse e rivolte popolari Si
è accennato prima alla necessità per i governanti, in genere, di
prestare attenzione all'approvvigionamento di grano, per evitare rivolte
popolari da fame. Ma questa attenzione non sempre ci fu, anzi, la
prevalente occupazione degli Stati in guerre devastanti e il continuo
ricorso a tassazioni gravose con innalzamento dei prezzi a livelli
insostenibili per la gente comune, alimentarono non pochi casi di sommosse
e rivolte nelle città. Spesso all'incapacità dei governanti si
aggiungevano le calamità naturali che, per piogge eccessive,
straripamenti di fiumi e allagamenti delle campagne o annate di siccità,
riducevano al minimo i raccolti e sfociavano in situazioni di carestia. E
in questi casi prendevano in mano la situazione gli accaparratori e gli
speculatori, che trovavano sempre il modo di procurarsi altrove e tenere
riserve di grano acquistato a prezzo basso, per rivenderlo a prezzi da
strozzinaggio agli stessi governanti, che poi lo rimettevano in vendita al
pubblico a prezzi calmierati, accontentando così le pressanti richieste
popolari, ma impoverendo e indebitando i bilanci degli Stati. E'
noto a tutti, credo, l'episodio della rivolta dei milanesi che assaltarono
i forni per procurarsi pane e farina nel 1630, raccontato da Alessandro
Manzoni ne “I promessi sposi”; e non fu certo il solo in quel
secolo e dopo. Lo
storico bolognese Ludovico Frati riferiva in un suo libro dei problemi
verificatisi in Bologna agli inizi del 1700, quando, a fronte di scarsi
raccolti nel bolognese, il Cardinale Legato si trovò a doversi
barcamenare infelicemente tra opposti interessi di fornai, monopolisti
locali e di Legazioni confinanti , popolazione e Camera pubblica. Nel
lungo periodo di vita dello Stato Pontificio (1516-1796 e poi 1815-1859),
la regolamentazione della vendita di grani e farine era dettata e
amministrata dalle Assunterie dette dell'Annona, o dell'Abbondanza,
o della “Grascia”, che tra l'altro, fissavano dazi per ogni
passaggio di proprietà o di confine di città. Papa Benedetto XIV (il
bolognese Prospero Lambertini) per tentare di ovviare alle speculazioni e
alle difficoltà che gravavano sul commercio, nel 1748 deliberò nuove
norme per la “liberalizzazione del commercio”, togliendo
molti vincoli e limiti alla libera circolazione delle merci, eliminando
alcuni privilegi dei possidenti delle terre (famiglie nobili , enti
religiosi e alti prelati soprattutto) e revocando le “privative”,
un'istituzione che favoriva i monopolisti-appaltatori dei dazi camerali.
Si rinnovavano inoltre i Bandi “contro coloro che facessero
incette e monopoli di grano, formentone, orzo, fave, legumi e altre biade,
aglio, olive e simili...” Ma
era difficile anche per un papa eliminare malversazioni e privilegi delle
classi sociali più forti, dalle quali lui stesso proveniva e che ne
condizionavano il governo. E quindi poco cambiò. Tra
le norme di quel documento si legge che nei mesi estivi era lasciata
libertà del piccolo commercio al minuto di quelli “che portavano al
mercato dentro lo Stato Polli, Ova, Frutta in poca quantità e li
scambiavano con Grano, Formentone, Marzatelli, Pane e Farina” per
uso personale e famigliare. Liberi
dovevano essere “primieramente li poveri che raccoglievano la spiga
caduta ai mietitori per quella poca quantità che possono adunare”,
ed erano pure esentati i contadini e i poveri operai che
per mercede ricevevano piccole quantità di grano o altri generi
alimentari, come pure esenti da gravami dovevano restare i “frati
cercatori” e i “religiosi mendicanti” che
raccoglievano generi per il loro Convento, “purché nella solita e
modesta quantità”. Provvedimenti “misericordiosi” che danno
l'idea della situazione economica del tempo. Non
andò meglio nel breve e sconvolgente periodo di dominazione napoleonica,
del quale si devono ricordare vari provvedimenti di requisizione del
grano e dei bovini nel nostro territorio (come in altri occupati) per
sfamare le truppe francesi. L' amministrazione del Dipartimento del
Reno tentò di regolamentare in modo diverso calmieri e dazi,
istituendo anche norme di controllo sui forni pubblici, che venivano però
dati in appalto a privati. Tra i carteggi del tempo si trovano notizie di
contrasti per competenze territoriali tra gli appaltatori dei forni di
Cento e di S. Giorgio di Piano, tra appaltatori e venditori di pane,
lamentele di cittadini e verbali di comunicazione di multe (chiamate “catture”),
per carenze igieniche e abusi sul peso e la qualità del pane sottoposto a
calmiere, ai titolari di botteghe alimentari e dei pochi forni pubblici. Con
la Restaurazione dello Stato pontificio , dopo il 1815,
la distribuzione del pane restò sempre problematica. Ad esempio, nel
1817, il sindaco di Argile scriveva al fornaio di Pieve, fornitore per le
botteghe argilesi, protestando perché fabbricava pane del peso di 18 once
invece che delle regolamentari once 21 (vendendolo allo stesso
prezzo...). E casi simili succedevano anche nei comuni vicini . Nel
1828 la Legazione di Bologna emanò nuove norme per la
fabbricazione del pane, vendita di farine e regimazione dell'Annona.
Ma la situazione economica generale era tale che bisognava ogni anno
ricorrere a provvedimenti di assistenza e beneficenza da parte dei Comuni,
come le periodiche distribuzioni di minestre per i poveri (dette
anche "cucine economiche"), soprattutto nei mesi
invernali e primaverili, quando non si trovava più grano e farina di
frumento per masse di “miserabili” certificati e famiglie di
braccianti disoccupati. Tra
le annate più difficili e di carestia, si trova citato il 1853; e
negli anni successivi il peso del pane, con prezzo fisso calmierato di 4
bajocchi, fu abbassato da 21 o 22 once fino a un minimo di 14
once. Con
l'avvio del nuovo Regno d'Italia e l'istituzione di una nuova
moneta, furono deliberate nuove regole e fu portato il peso
del pane calmierato a 16 libbre , da vendere a 20 centesimi
il pezzo. Alle consuete difficoltà economiche si aggiunse,
nel 1868, una nuova tassa sul macinato, istituita
dal Ministro delle finanze, Quintino Sella, per pareggiare il
deficitario bilancio nazionale. Questa tassa provocò una rivolta
generale, passata alla storia come "i moti del macinato". Si
trattava del pagamento di lire 2 per ogni quintale di frumento
portato al mulino e lire 1 per il frumentone, con la possibilità
alternativa di pagare "in natura", lasciando al mugnaio
una porzione di cereali dello stesso valore dovuto. Ma gli abusi da parte
di mugnai e agenti delle tasse erano frequenti, perché, nonostante
i severi richiami governativi, c'era sempre chi approfittava del
fatto che contadini e braccianti che si recavano al mulino non sapevano
leggere, nè scrivere, nè far di conto e quindi non potevano controllare
l'esattezza di quanto veniva loro richiesto. Quella
tassa sul macinato era dunque un balzello che risultava doppiamente
gravoso per una gran massa di popolazione che già viveva stentatamente,
ai limiti della fame. Già nel dicembre del 1868 si erano verificati
alcuni episodi di ribellione contro la tassa in vari luoghi
d'Italia, ma fu tra il 6 e il 10 gennaio 1869 che
esplosero i moti più gravi , nel bolognese e in gran parte dell'Emilia
soprattutto. Si verificarono assalti ai mulini e ai municipi, al grido di
"Abbasso il Re! Viva Pio IX!" da parte di dimostranti
armati con attrezzi agricoli e con fucili sottratti dai depositi delle
Guardie Nazionali. Le autorità reagirono in molti casi con durezza,
mandando Carabinieri e Bersaglieri che spararono sulla folla, provocando
morti e feriti. Seguirono poi arresti e processi, e una "Commissione
d'inchiesta sulle cause dei turbamenti delle Province dell'Emilia
nell'attuazione della tassa sul macinato". Negli
ultimi due decenni del secolo 1800 si costituirono spontaneamente, delle
“Società Operaie di Mutuo soccorso”, che
riunivano operai, artigiani, ma anche persone benestanti, che mettevano a
disposizione piccoli risparmi per intervenire poi ad aiutare e garantire
il pane alle famiglie dei soci e comunque dei bisognosi quando si
trovavano in difficoltà, per malattia o perché rimasti senza lavoro. Ma
queste volonterose istituzioni benefiche non riuscivano a portare
che un minimo sollievo nei periodi di crisi generale. Un anno tra i più
difficili fu il 1898, a cominciare dai mesi di gennaio e febbraio, a causa
di una carestia che interessò tutta l'Italia. Non si trovava più grano e
farina, se non in piccole quantità e a prezzi altissimi. A livello
nazionale si arrivò a proclamare la legge marziale, e a Milano
all'esercito fu dato l'ordine di sparare su una folla di dimostranti
disarmati e affamati. Si contarono decine di morti. Altro
lungo periodo di carenza di pane si verificò all'avvio della prima guerra
mondiale, dal 1914 al dopoguerra e fino all'instaurazione del fascismo.
Anche in quel periodo si tentò di
procurare il pane a chi era in situazione di grave bisogno. A Bologna è
ricordato il sindaco del tempo, Francesco Zanardi, che fu detto "il
sindaco del pane", perché istituì rivendite di pane e altri
alimenti a prezzo di costo. Seguirono un po' dovunque Cooperative di
consumo sempre con lo stesso fine di ovviare agli alti prezzi dei
generi alimentari. Anche
nel periodo fascista, nonostante la "battaglia del grano"
proclamata dal "Duce" per incentivare la produzione di questo
fondamentale cereale e coprire il fabbisogno nazionale,
l'approvvigionamento e la gestione furono sempre problematici. Costante fu
il ricorso a provvedimenti di assistenza e beneficenza attivati dalle
amministrazioni comunali , o attraverso l'E.O.A. (ente opere assinteziali),
il Dopolavoro e la Befana fascista, con periodiche
sollecitazioni ai proprietari terrieri perché donassero grano per
sostenere la pubblica beneficenza. Negli anni '30 furono istituiti gli
ammassi obbligatori del grano, ma la loro gestione fu fonte di non pochi
problemi e scarsi benefici. Solo
un cenno per ricordare la fame per molti nel periodo della seconda guerra
mondiale, tra il 1940 e il 1945, quando la farina bianca veniva
distribuita col contagocce, presentando le tessere del razionamento.
In quel periodo, in particolare nell'estate del 1944, si attuò anche
l'ultima tragica "battaglia del grano", combattuta
dalla Resistenza che voleva impedire che il grano trebbiato
nelle aie dei contadini finisse nelle mani degli occupanti tedeschi, che
sorvegliavano e presidiavano armati i lavori, insieme ai militi
della Repubblica di Salò. Non mancarono i morti, da ambo le parti. Questo
lungo excursus, se pur sommario e insufficiente a
contenere una storia così importante, vuol ricordare che non è
vero che "andava meglio quando andava peggio". Pensiamoci, ora
che possiamo scegliere tra 200 tipi di pane e forse altrettanti di
panettone natalizio
Magda
Barbieri
(*) (*)
Relazione di sintesi a corredo dell'incontro e della mostra sulla
storia del pane, allestita in occasione della fiera di Baricella 2006, per
il "Gruppo di Studi pianura del Reno". Pubblicata sul
sito www.pianurareno.org
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